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Geografia Versus Fotografia. Fotografia Versus Geografia: Il Colloquio Intertemporale

I geografi delle ultime generazioni hanno considerevolmente ampliato il ventaglio delle loro ricerche e dei loro interessi includendo non solo le tendenze economiche e le strutture sociali ma anche gli effetti delle diverse mentalità, della vita quotidiana, della cultura materiale, del corpo, ecc., sul paesaggio. Certo gli studi non sarebbero stati conclusi esaurientemente se si fossero limitati alle fonti tradizionalmente usate: si è così progressivamente affermato il ricorso ad un ventaglio più ampio di “prove” tra le quali ha trovato sempre più spazio l’immagine. Parafrasando quanto ebbe a scrivere Bann, il porsi dello studioso di fronte ad un’immagine, per esempio di un’epoca diversa dall’attuale, ci pone davanti alla storia di quel territorio, rappresentando la migliore esemplificazione del potere delle rappresentazioni visive nella vita delle civiltà passate (Bann,1998).

Interessante tuttavia sottolineare che, per la natura stessa dell’immagine, essa è un testimone muto e non è quindi compito facile leggere quanto di vero essa ci trasmetta della realtà. Eppure nei volti della gente si può sempre leggere qualcosa della storia del loro tempo, purché si sappia come leggerla. Riprendendo, a tal proposito, la citazione di Deleuze, Guattari: “Non c’è viso che non celi un paesaggio sconosciuto, inesplorato, non c’è paesaggio che non si popoli di un viso amato o sognato, che non sviluppi un viso a venire o già passato” (Deleuze, Guattari, 2003), il contributo, riallacciandosi a quanto esposto in occasione del Convegno IPSAPA 2018, intende soffermarsi a riflettere sul ruolo svolto dall’approccio iconografico e iconologico sul paesaggio come occasione per ricostruire sensibilità passate e per riflettere sugli scenari futuri.

Pontalis afferma che: “Ci vogliono parecchi luoghi dentro di sé per avere qualche speranza di essere se stessi” (Pontalis, 1999) e le fotografie riportano all’analisi dei paesaggi affrontate dall’Autrice nel passato, alle sue battaglie per la sostenibilità ambientale e la lotta al sottosviluppo.

Nella pagine che seguono si va oltre la fotografia per approfondire alcune gravi diseconomie attuali. Si pensi ai problemi legati alla disaggregazione, come nei “paesaggi di carta”, dove domina l’immenso spazio urbano dei nuovi vuoti. Gli esempi che possiamo osservare guardando le nostre città sono agghiaccianti, solo che spesso sia l’abitante che il turista tendono a rimuoverli dalla loro percezione cosciente. L’inventario organico ne dà, purtroppo, la reale dimensione. Ogni giorno se ne aggiungono di nuovi, e non riescono a entrare culturalmente nella categoria, peraltro mal definita, dell’archeologia industriale.

Figura 1. Ciò che resta del caseificio Dalmasso nella periferia di Macomer, Nuoro. https://www.sardegnaabbandonata.it/zona-industriale-di-macomer

La riconversione, nonostante i buoni propositi, è spesso impossibile perché la struttura distributiva interna e urbana non risponde più a un ragionevole funzionamento. Lo stesso spazio, anche liberato e pronto per la ricostruzione lascia seri problemi di riuso: ne sono esempio i molti edifici dismessi delle periferie, che in quasi tutte le città risultano poco funzionali perché distanti dalle aree centrali e mal collegati mediante i mezzi pubblici (Fig. 1).

Possiamo altresì riflettere su come le città del XXI secolo presentino ormai grande varietà e nel contempo anonimato, specialmente il centro delle città, divenuto una macchina del divertimento, sia come locali ad esso deputati, sia come basi per lo shopping (Fig. 2).

Figura 2. Via Takeshita-dori nel quartiere di Harajuku a Tokyo.
https://www.gotokyo.org/it/destinations/western-tokyo/harajuku/index.html

In un mondo dove il potere della rappresentazione è sempre più conclamato, nel quale dando voce alle immagini si creano nuove esigenze e si decidono destini, attraverso i social network come per mezzo della pubblicità, è essenziale saper leggere una fotografia in chiave geografica, per poterla considerare un utile strumento di qualità e di valore per la comprensione della realtà.

Geografia versus fotografia

John Green nel descrivere la realtà nella quale si svolge parte del suo romanzo “Città di carta” afferma: “Ecco il brutto: da quassù non vedi la ruggine, la vernice scrostata, ma capisci che razza di posto è davvero. Vedi quanto è falso. Non è nemmeno di plastica, persino la plastica è più consistente. È una città di carta. Guardala, … guarda tutti quei viottoli, quelle strade che girano su se stesse, quelle case che sono state costruite per cadere a pezzi. …”. Se a queste considerazioni si lega quanto ha affermato Jean-Luc Nancy, ovvero che: “La città è un’ipotesi, un’idea e una rappresentazione, ma anche una realtà economica, sociale, abitativa e normativa. La città è anche luogo di ansie, aspettative e desideri che s’intrecciano con la realtà socio-economica, geografica e demografica”, appare evidente come la città e gli spazi che la compongono debbano essere considerati come un convergere di visioni tra loro spesso in contrasto, frutto di geometrie variabili, grovigli di zone e origine di direttrici verso ogni dove.

L’urbs, avvolgente, invadente, oppressiva ma anche estesa, dilatata, espansa, unisce, e allo stesso tempo separa, persone, mezzi, economie, idee, … E se le direzioni della città sono molteplici come molteplici e sconosciute ne sono le finalità, gli edifici che la compongono possono essere esplorati per la loro valenza simbolica o per la loro capacità di creare idee e valori, che a loro volta influenzano l’agire sociale e politico.

Figura 3. Zukünftig Supermarkt a Berlino, da: “Rovine Contemporanee” di J. Fredac. https://youmedia.fanpage.it/gallery/ah/58ca7730e4b044746cc0a7ac?photo=58ae

Identificare la cultura di una comunità con il patrimonio di simboli (e di significati) costruiti nel corso della storia consente di esplorarne l’identità culturale; contemporaneamente, nella comunità che vive questi simboli si rafforza la coesione sociale. D’altra parte non possono essere ignorati i processi che hanno provocato la realizzazione di questi spazi pubblici e i limiti di corrispondenza tra forma e funzione. In particolare lo studio della forma risulta interessante per rivelare, nella sfera del visibile, la realtà invisibile, per ricomporre gli elementi, i punti, le superfici e i volumi, ma anche, e soprattutto, per riflettere su come le comunità che abitano questi spazi, li vivono e li sentono, per confrontare realtà e percezione, reale e immaginario.

Molti vuoti sono da tempo oggetto di dibattito nelle città di ogni Paese, sia da parte delle amministrazioni locali che dei cittadini in quanto luoghi abbandonati ed inutilizzati che cercano una nuova vita (Fig. 3).

Lo spazio in disuso è oggi un luogo incompiuto non più consolidato nella città con una grande carica evolutiva e nel quale è percepibile il contrasto della trasformazione; esso, tuttavia, possiede potenzialmente nuove funzioni, anche completamente diverse dalle originali. Ed in questo risiede la sua forza, nell’essere quello spazio dove le cose possono accadere, dove è ancora possibile “aggiustare”, “integrare”, “trasformare” e le fotografie di come si presenta la realtà ci aiutano a questo scopo. Purtroppo però la fotografia si scontra anche con immagini completamente fallaci di luoghi addirittura inesistenti mentre altre volte deve fare i conti con spazi volutamente “cancellati”.

Nel 1930 Romains scrisse la commedia Donogoo: “Quando il sipario si apre, Donogoo è un nome di fantasia segnato a caso sulla carta geografica, quando si chiude è una vera città”. In mezzo c’è un vivace film d’azione, come scrive Goffredo Fofi: “in cui convergono lo spirito d’impresa e lo spirito d’avventura, il calcolo e il caso”.


Figura 4. Il bar sulla spiaggia di Sandy Island presentato da TripAdvisor.
https://www.tripadvisor.it/ShowUserReviews-g5213296-d148030-r642511062
 

Con questa commedia…, entrata nel repertorio della Comédie-Française e portata al successo da Louis Jouvet, lo spettatore assiste al trionfo di una truffa colossale, ordita da tre personaggi senza scrupoli in cerca dell’inesistente città sudamericana di Donogoo. D’altra parte, come ebbe a scrivere scrive Romains: “Tra la verità e l’errore scientifico non c’è mai stato altro che una differenza di data”.

Uscendo dalla finzione dobbiamo censire nella realtà errori-iceberg come isole o lembi di terra le cui longitudini sono state calcolate male o che in realtà non esistono. Pensiamo a Los Jardins, due isole vicino alle Marshalls, alle isole Buss, Smeraldo e Dougherty, agli arcipelaghi come la Reale Società Isole, individuate a sud ovest della Tasmania e incluse in mappe per anni, alle Isole Phelipeaux e Pontchartrain, tutte descritte minuziosamente  … ma inesistenti.

Tuttavia il caso più eclatante per le nostre considerazioni riguarda Sandy Island un’isola del Mar dei Coralli tra Australia e Nuova Caledonia, lunga 25 chilometri e larga 5.

Consultando TripAdvisor si può leggere questo commento: “This beautiful island is only 25 by 150 yards and offers a quiet place for a swim, fabulous lobster lunch, or a drink at the beach bar”e vedere immagini che testimoniano l’ambiente paradisiaco (Fig. 4). Dal canto suo sappiamo che Google maps localizza perfettamente l’isola ad ovest della nuova Caledonia, eppure, come ci documenta Alastair Bonnett, l’isola non esiste.

Un altro esempio interessante riguarda, Argleton, cittadina del Lancashire, in Gran Bretagna che esiste solo su Google maps e Google Earth, tra Aughton e Aughton Park, in una zona rurale a sud di Ormskirk. L’errore fu individuato per la prima volta nel settembre 2008 ipotizzando che Argleton fosse stata aggiunta alle carte proprio dai programmatori di Google come una trappola per prendere in fallo le aziende che violavano la normativa sul copyright di Google maps ma, aspetto molto interessante per le nostre considerazioni, mentre si discuteva di come fosse potuto accadere un fatto simile, Argleton acquisiva una diffusa esistenza virtuale, con migliaia di ricerche e discussioni online, registrazione di domini web e perfino iniziative di merchandising (Fig. 5).


Figura 5. Merchandising di Argleton.
https://www.zazzle.co.uk/argleton+gifts

Batman, in “Terra di nessuno”, parlando di Gotham City afferma: “… è dimenticata. Gotham è l’unico posto dove nemmeno Dio può sentire le vostre preghiere. Amici miei, vi sembra familiare? Dovrebbe! E così dico a voi tutti … benvenuti all’inferno! Nessuno può salvarvi ora!”.

Curiosamente anche Calvino conclude il suo volume: “Le città invisibili” ricordando che: “L’’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.


Figura 6. L’ingresso, con checkpoint, a Zheleznogorsk.
https://mywed.com/it/Russia/Zheleznogorsk-wedding-photographers/

E così se da un lato troviamo città fantasma che compaiono prima “misteriosamente” sulle carte geografiche e poi con fotografie accattivanti anche in internet, o città di fantasia nei racconti di diversi scrittori, nella realtà esistono spazi urbani assenti dalle carte e non fotografate che, purtroppo, sono veri e propri inferni!

Ci vogliamo riferire, in primis, a Zheleznogorsk, città creata nel 1950 dall’Unione Sovietica come centro di produzione di armi al plutonio e mantenuta segreta per quarant’anni: aveva abitanti, edifici, negozi, un sindaco, ma non un vero e proprio nome (agli addetti ai lavori era nota come “città atomica”).

Solo nel 1992, l’allora presidente Boris Eltsin, rivelò al mondo la sua esistenza e la sua posizione geografica (Fig 6). Un caso ancora più drammatico riguarda la cittadina di Mayak, situata negli Urali a 1500 chilometri da Mosca, che sino al 1990 non compare su nessuna carta geografica perché importante obiettivo strategico e militare dove si conducevano molti esperimenti che dovevano restare segreti. La sua esistenza è stata ufficialmente riconosciuta quando non fu più possibile tenere nascosto che nella regione di Chelyabinsk, dove si trova Mayak, sin dalla fine degli Anni ’80 si registrava un aumento del 21% dell’incidenza di cancro sulla popolazione locale, del 41% delle leucemie e il 25% in più di difetti congeniti sui neonati (Fig. 7).


Figura 7. Edificio abbandonato nella città fantasma di Metlino.
http://metlino.wikimapia.org/en/photos/

Mayak ospita dal 1948 una centrale nucleare costruita per creare plutonio per la realizzazione della prima bomba atomica sovietica. La Mayak Production Association, divenne ben presto uno dei più grandi impianti di produzione di reattori nucleari di Russia. Purtroppo già tra 1949 e il 1952, la centrale di Mayak iniziò a riversare tutti i rifiuti radioattivi nel fiume Techa, anche quelli ad alto livello radioattivo. Nessuno pensò alla salute della popolazione locale, perché prioritaria era la finalità governativa, ma il villaggio più vicino, Metlino, era a soli 7 chilometri da Mayak, lungo il corso del fiume.  Nel 1950 la popolazione iniziò ad ammalarsi di cancro e si moltiplicarono i casi di malformazioni congenite; l’anno seguente il 70% della popolazione fu colpito da leucemia. Solo allora si decise di evacuare e distruggere non solo Metlino ma anche tutti gli altri villaggi del territorio. In dieci anni furono evacuati e distrutti 25 villaggi lungo il fiume Techa e i responsabili della centrale smisero di scaricare i rifiuti ad alto livello radioattivo nel fiume decidendo di stoccarli sottoterra in grandi contenitori, continuando invece a sversarvi i rifiuti a medio e basso livello di radioattività, senza alcuna precauzione per la popolazione locale.

Ricordiamo, tra l’altro, che nel primo periodo di attività l’impianto nucleare non era neppure dotato di filtri, per cui molti elementi radioattivi, tra cui il pericolosissimo Iodio 131, venivano emessi direttamente nell’aria e, di conseguenza, le persone che vivevano in prossimità dell’impianto furono esposte a una forte dose di Iodio radioattivo che ha prodotto in loro molte patologie alla tiroide. Anche oggi, secondo molte ONG locali, la situazione non è cambiata, dal momento che la concentrazione di radioattività presente non diminuisce (Fig. 8). La quantità totale di rifiuti radioattivi che è stata riversata dalla centrale di Mayak nel fiume Techa nel corso degli anni è stimata in 500 milioni di metri cubi!


Figura 8. Il fiume Techa nella regione di Chelyabinsk.
https://it.ilovevaquero.com/obrazovanie/89383-reka-techa-v-chelyabinskoy-oblasti.html

Mayak è poi stata teatro nel 1957 di uno dei più gravi incidenti nucleari della storia (terzo in ordine di gravità dopo Chernobyl e Fukushima) quando un serbatoio esplose rilasciando 100 tonnellate di scorie radioattive che contaminarono una vasta zona causando numerosi morti e feriti per l’esposizione prolungata alle radiazioni. Il regime sovietico coprì per anni ciò che effettivamente era accaduto, portando nei seguenti 45 anni a 400 000 le persone coinvolte.

Nel  1967 si verificò un terzo incidente: il Lago Karachay, usato per lo smaltimento dei rifiuti nucleari più pericolosi, si asciugò a causa di un’estate torrida, e i venti spazzarono le sue polveri radioattive per un’area di circa 2 200 Kmq dove abitavano circa 400 mila persone. Nessuno fu evacuato.


Figura 9. Coppia che ancora oggi abita vicino al fiume Techa.
Immagine tratta dal documentario “Metamorphosen”del regista tedesco Sebastian Mez.

Dopo l’incidente di Chernobyl che accese i riflettori di tutto il mondo sul problema del nucleare in Unione Sovietica, il governo non poté più tacere questi disastri. Solo nel 2003 le autorità competenti hanno però revocato la licenza per lo scarico delle scorie nel lago e, nonostante questo, l’impianto di Mayak è rimasto al suo posto senza che le auspicabili e necessarie precauzioni del caso ed il suo smantellamento venissero adottate. Nel 2010 un’ondata di incendi estivi colpì la Federazione Russa e nuovamente scattò l’allarme a Mayak e dintorni. In quell’occasione, intervennero anche gli Stati Uniti che mandarono in appoggio due c130 dell’US Air Force. Nel 2011 Mayak tornò alla ribalta internazionale perché un gruppo di lavoratori della centrale spedirono ad alcuni quotidiani locali lettere di denuncia, per gli standard di sicurezza carenti, segnalando che per i sistemi di raffreddamento di un reattore nucleare sarebbero stati usati tubi cinesi contraffatti, non conformi alle norme federali!

Sono passati decenni dai primi disastri nucleari registrati in questi territori e la centrale nucleare di Mayak è ancora oggi in funzione e le persone che vivono nelle terre contaminate continuano ad assorbire plutonio, cesio, stronzio nei loro corpi! In tutti questi anni nessuno ha bonificato il lago dalle scorie nucleari né ha avvertito o evacuato la popolazione locale, che ha continuato a irrigare i campi con le sue acque e con quelle del suo affluente, il fiume Techa. Si calcola che nel corso degli ultimi 53 anni vi sia stato un aumento del 78% di malati di leucemia e cancro nella zona; inoltre il 30% dei bambini nasce con difetti e malformazioni genetiche, malattie del sistema nervoso, patologie cardiache e il 50% degli uomini e delle donne sono sterili. Secondo stime delle varie ONG la radioattività ha contaminato complessivamente un milione di persone (Fig. 9). Attualmente Mayak è il principale polo di riprocessamento delle scorie nucleari della Federazione Russa (ma qui vengono stoccate anche scorie di altri Paesi fra i quali Cina,  Corea del Sud, Germania, Spagna, Francia, Svizzera, …).

Fotografia versus geografia

Mentre nel paragrafo precedente le immagini sono state usate per documentare il fatto analizzato, nelle pagine che seguono a parlare saranno proprio le fotografie che, con immediatezza (anche se create non per parlare di geografia), ci comunicano i dettagli di un complesso processo in atto nel paesaggio. Esse infatti ci forniscono numerosi indizi di grande valore per  rintracciare le diseconomie presenti nei territori.

A Verona l’Associazione AGILE ha intrapreso, tra giugno 2013 e febbraio 2014, un progetto di mappatura del territorio cittadino con lo scopo di censire e catalogare gli spazi in disuso e abbandonati presenti in questo determinato lasso temporale. La mappatura ha portato all’individuazione di ben 555 spazi, per una superficie complessiva di 2.636.570 m². I vuoti censiti sono quanto mai vari; si passa infatti da ex caserme ed altre strutture militari a palazzi, ex edifici religiosi, edifici adibiti al servizio pubblico,  cinema abbandonati, aree industriali, ruderi, case rurali e non,  cantieri,  complessi residenziali, commerciali, direzionali, sottopassaggi, … ed ognuno di essi è stato scelto non in base all’inclinazione politica del censore ma come documentazione oggettiva di una “malformazione territoriale”. Le immagini che seguono sono tratte proprio dal Censimento AGILE (Fig. 10).


Figura 10. Porta Fura, Via Porta Catena, Verona.
https://associazioneagile.wordpress.com/portfolio/mappatura-dei-luoghi-in-disuso

Indubbiamente è importante ricollocare le immagini nel loro contesto territoriale originale al fine di non dare interpretazioni errate poiché nessun oggetto posto nello spazio è neutro rispetto a ciò che lo circonda. D’altra parte proprio le immagini, rispetto al testo narrato, ci rivelano dettagli significativi difficili da descrivere a parole. C’è chi dice sia stato Gustave Flaubert ad affermare: “Le bon Dieu est dans le détail”, altri si rifanno allo storico dell’arte Aby Warburg: “Der liebe Gott steckt im Detail” e altri ancora all’architetto Mies van Der Rohe: “God is in the details”: è importante riflettere anche sui minimi dettagli che la fotografia ci offre!


Figura 11. Edificio residenziale in Via Duomo 10, Verona.
https://associazioneagile.wordpress.com/portfolio/mappatura-dei-luoghi-in-disuso-di-verona/

Le ridotte pagine a disposizione non ci permettono di analizzare i singoli esempi presentati; scopo di queste immagini è di invitare a riflettere sui modi attraverso i quali si deciderà in futuro di vivere questi spazi: sarà il risultato di valori legati al patrimonio culturale di cui essi sono simbolo o sarà frutto delle speculazioni?

In questo risiede la complessità delle riflessioni, quando ci si pone dal punto di vista di operare una riabilitazione di vuoti storici così stratificati, di salvaguardare lo spirito di questi luoghi e la loro atmosfera viva e brillante, forse ancor più dell’architettura degradata (Fig. 11).

Quanto ora affermato trova conferma negli studi di Cramer che ricordò come la città sia, più di ogni altro, un sistema di organizzazione connessa in rete nel quale ogni parte influisce sul tutto, anzi un sistema di organizzazione dinamica in rete che si modifica nello spazio e nel tempo, nel quale proprio alcuni spazi possono fornire una forma alla città, provvisorio ordine in costante movimento caotico. La città resta comunque anche un tessuto di relazioni sempre in bilico, creazione di ordini spontanei in perenne adattamento, socialità consapevole che si mescola con un substrato quasi biologico.

Gli edifici in disuso, sia quelli censiti a Verona che quelli che più o meno nascosti fanno capolino nelle diverse città, devono essere esplorati per la loro valenza simbolica, per la loro capacità di creare idee e valori, che a loro volta influenzano l’agire sociale e politico (Fig. 12).


Figura 12. Edificio industriale in Via Salita Monte Grappa 9, Verona.
https://associazioneagile.wordpress.com/portfolio/mappatura-dei-luoghi-in-disuso-di-verona/

Figura 13.Casa rurale in Via Bacilieri, Verona.
https://associazioneagile.wordpress.com/portfolio/mappatura-dei-luoghi-in-disuso-di-verona/

Questi spazi, infatti, possiedono un apparato simbolico frutto dei gruppi umani che li hanno “voluti” e sono, altresì, depositari di cultura intesa come universo di simboli accumulati lungo un percorso umano da una comunità e trasmessi da una cultura ad un’altra (Fig. 13).

E identificare la cultura di una comunità nel patrimonio di simboli (e di significati) costruiti nel corso della storia consente di esplorarne l’identità culturale; contemporaneamente nella comunità che vive questi simboli si rafforza la coesione sociale (Fig. 14).


Figura 14. Uffici in Viale delle Nazioni, Verona.
https://associazioneagile.wordpress.com/portfolio/mappatura-dei-luoghi-in-disuso-di-verona/

Figura 15. Tipografia Sella in Via Giolfino 3 Verona.
https://associazioneagile.wordpress.com/portfolio/mappatura-dei-luoghi-in-disuso-di-verona/

Molti di questi, nell’ambito dell’universo di simboli che caratterizza le varie fasi della storia di una città, sono certamente simboli-chiave che, pure se hanno assunto significati differenti passando da un’epoca ad un’altra, non possono sparire (ed è quello che invece accade ormai da anni, con la loro non fruizione e il degrado) perché sono immanenti al vivere sociale.

Sono luoghi che possiede una “forma” ben definita: ci parlano di esperienze, più o meno intense, collocate in un tempo storico e ben spazializzate, che non possono essere cancellate (Fig. 15). Nel tempo il rapporto dell’uomo con questi oggetti ha subìto profonde modificazioni, significative inversioni di tendenza, è stato soppresso per molti il ruolo militare assegnato loro in origine in ragione della funzione della città, ma sono vuoti ben riconoscibili che continuano a segnare il territorio attribuendogli una specifica tipicità.

Per riflettere

Il paesaggio è cultura, sia nelle sue dimensioni diacroniche sia nell’interpretazione sincronica che ne dà la comunità che vive questi luoghi. E poiché la capacità della moderna società di garantire un futuro per il passato rappresenta la possibilità di assicurare l’avvenire del genere umano attraverso e mediante un giusto rapporto con la natura … proprio da questa correlazione nasce l’esigenza di garantire, attraverso una corretta gestione dei segni del passato un nesso di continuità alle relazioni che possono essere instaurate tra gruppi umani, attività produttive e risorse, realizzando un adeguato rapporto con la natura poiché intervenendo sul passato delle realtà si possono esercitare effetti positivi sul processo di crescita economico produttiva e sulla stessa promozione culturale.

Considerare una comunità come artefice della costruzione del proprio territorio porta a ricostruire gli oggetti e le trame che li hanno sostenuti con il supporto della memoria storica. Questa ricostruzione dell’oggetto ci insegna a rifare l’oggetto stesso ed è quindi possibile porre le premesse conoscitive ed interpretative per intervenire e salvaguardare, valorizzare e riqualificare l’insieme delle stratificazioni storiche del territorio.

In questa logica le realtà territoriali immortalate nelle fotografie devono essere considerate come compresenza in atto e stratificazione storica di usi e di spazi, nei quali sono rintracciabili i segni delle trasformazioni subite nel tempo.

Si configurano come un paesaggio vivo del quale fanno parte integrante gli elementi naturali e gli elementi artificiali, le caserme come le abitazioni civili che nel corso degli anni hanno occupato lo spazio: il nuovo ed il vecchio coesistono in un paesaggio di memorie del passato e di tensioni verso il futuro, articolato in luoghi dove figure, forme, materiali, colori, stimolando la nostra immaginazione costituiscono anche un monito alla logica costruttiva ed organizzativa dello attuale.

A conferma della validità di quanto affermato prendiamo, ad esempio, il caso di Porto Palermo in Albania ed in particolare il progetto di Elisa Terragni. Come, infatti, ci ricorda l’architetto: “La baia di Panorma, questo è il nome originale, è un posto incredibile dove il tempo si è fermato lasciandoci un paesaggio intatto e completamente preservato. Il recupero della base militare, del tunnel e del suo sottomarino rappresenta  un’immersione nella guerra Fredda” (Fig. 14).

L’aspetto interessante di Porto Palermo, di questo vuoto, appunto, è la memoria che permette di far riemergere la storia che vi è dentro un luogo. Il paradosso è, sottolinea Terragni, che grazie a questi luoghi militari, molto spesso il paesaggio è rimasto in gran parte incontaminato: sono queste disturbing structures che hanno salvato la costa albanese da un processo devastante di selvaggia aggressione edilizia”. 


Figura 16. Porto Palermo, Albania. in Via Giolfino 3 Verona.
https://www.artribune.com/redirect/2013/larchietettura-e-ricerca

Per la sua storia recente, in Albania la questione del riuso delle infrastrutture dismesse ha una centralità assoluta, potente e progettualmente feconda, considerato l’imponente impatto fisico del sistema di difesa militare creato con sistematicità ossessiva negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Un tessuto uniforme di bunker e tunnel che si è steso come una ragnatela fitta e intricata su tutto il territorio nazionale. E la base sottomarina per sommergibili (un tunnel lungo 650 metri e alto 12) che taglia una striscia di terra a Porto Palermo è senza dubbio un sito eccezionale, tra acqua e aria, per riflettere, documentare e trasmettere le vicende della Guerra Fredda. 

Terragni ha collaborato anche a Tirana per trasformare in Museo Nazionale un edifico molto particolare.Una casa seminascosta nel centro di Tirana è stata, infatti, fino a tempi recenti la sede del Sigurimi, il servizio segreto albanese che ha operato durante la dittatura di Enver Hoxha. Il sito, strategico nella geopolitica della città, doveva apparire come una normale villa urbana con il suo giardino. Il progetto di trasformare “La Casa delle Foglie” nel Museo Nazionale della Sorveglianza Segreta è nato dalla volontà del Ministero della Cultura albanese nel 2014 ed è stato elaborato da un team di storici, dalle associazioni delle vittime, da tecnici e da una manodopera locale (Fig. 17).


Figura 17. Museo “La Casa delle foglie” a Tirana.
https://www.informagiovani-italia.com/casa-delle-foglie-museo-dei-servizi-segreti-tirana.htm
 

Come sottolinea l’Architetto: “La Casa delle Foglie è già una presenza iconica nella città, simbolo di un passato che si vorrebbe dimenticare e di un futuro aperto e democratico che ha portato il governo ad un fitto programma di recupero delle strutture del regime comunista. La trasformazione di questa Casa in un luogo di Memoria richiede interventi delicati e attenti perché la condizione di abbandono fa parte della sua storia così come lo sono le sue ferite da curare ma non da cancellare”. Oggi questo edificio, comunque lo si visiti rivela, insieme alle decine di oggetti e postazioni di ascolto e spionaggio, le sue incongruenze e le sue cancellazioni. Lentamente i livelli della storia sono stati svelati, gli oggetti recuperati, i documenti esposti, lasciando al visitatore il tempo di pensare e ricordare. 

L’oggi di un territorio non è frutto delle sue prerogative intrinseche, che già da sole lo potrebbero collocare, rispetto al sistema più generale in cui esso è inserito, in una categoria dominante o marginale, ma anche, e in molti casi purtroppo, delle situazioni prodotte dalle realtà limitrofe. Già nel 1992 l’Unione Europea approvava il Quinto Piano d’Azione Ambientale nel quale si auspicava un cambiamento dei modelli di comportamento della società promuovendo la partecipazione di tutti i settori e rafforzando lo spirito di corresponsabilità che si estendeva all’amministrazione pubblica, alle imprese e alla collettività. Si prendeva definitivamente coscienza di come la tutela dell’ambiente dovesse venir integrata nella definizione e nell’attuazione delle differenti politiche comunitarie, non solo per il bene dell’ambiente ma anche per il bene e il progresso di tutti i settori. Ma per realizzare ciò si deve definitivamente superare la visione individualistica della soluzione dei problemi per orientarsi, nei comportamenti e nelle politiche territoriali, verso le logiche proposte da una visione di queste entità come riunite in una regione sistemica.


Figura 18. Community gardens di New York.
https://www.architetturaecosostenibile.it/green-life/curiosita-ecosostenibili/community-

Occorre quindi sottolineare che nessun luogo è inutile e assolutamente privo di potenzialità; se non altro esso ha la funzione di tramite e di complemento. Anche le aree depresse sono infatti tali o perché sono state inerti o perché sono state gravate da attività in contrasto tra loro e/o con le potenzialità del luogo. Occorre intervenire per promuovere nuove attività economiche o culturali che prendano il posto di quegli vuoti che, dismessi e abbandonati, nel corso degli anni sono divenuti simboli del disagio. Diviene sempre più urgente rimodellare questi in una logica di insieme, anche attraverso la promozione di una maggiore sensibilità.

Convinti, come ricordò Calvino ne “Le città invisibili” che: “La città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole”, e affinché non si concretizzi ciò che a suo tempo scrisse La Rochelle, ovvero: “La città non è la solitudine perché la città annienta tutto ciò che popola la solitudine. La città è il vuoto”, occorre operare per rendere pieni questi vuoti delle città, senza paura ma con il desiderio di offrire un futuro al passato.

E se in Italia ancora si fatica a fare proprio questo modo di leggere la città, altrove, ad esempio a New York, interi quartieri tornano nelle mani dei cittadini che tessono nuove relazioni spaziali e danno vita, tra gli altri, ai community gardens. Le grandi città, ad ancor più le metropoli, nella loro incessante corsa per salire sul palcoscenico della globalizzazione, lasciano dentro di sé spazi vuoti, frammenti, dross scapes, terrain vague, land stocks, scarti.

Questi “brani dimenticati” di città, per lungo tempo interpretate dalle amministrazioni newyorkesi come parti critiche, frange problematiche dello sviluppo urbano, ora sono divenuti, grazie all’intervento dei residenti, spazi di sperimentazione, dotati di nuove qualità e valori, di un nuovo ciclo di vita, per cercare di colmare il “male di vivere” della città contemporanea (Fig. 18). I community gardens del Lower East Side di New York, sono la materializzazione dell’attivismo urbano nella marginalità, esempi di autogestione nel tentativo effettuato dai residenti di rivendicare il proprio diritto ad esistere come cittadini, di non subire passivamente le trasformazione dei “propri paesaggi” che, nel recente passato, aveva visto materializzare in molti spazi verdi la campagna di investimenti per costruire edifici più confacenti alla middle class da poco insediatasi nel quartiere (Fig. 16).


Figura 19. Community gardens di New York.
https://www.architetturaecosostenibile.it/green-life/curiosita-ecosostenibili/community-

Per arginare la demolizione di molti giardini, frammenti di natura, momenti di evasione all’interno di una rigida maglia di edifici, resa peraltro desolante dal degrado e dal pesante traffico sono nate queste iniziative che oltre ad avere una grande importanza per la vita comunitaria del quartiere, creano aggregazione, migliori condizioni di vita, punti di riferimento per la vita pubblica, benefici ambientali (Fig. 19).

Questi giardini moderni, riprendendo quanto acutamente ha affermato Michela Pasquali sono eterocliti per la loro forma mutevole, in continua evoluzione, data da combinazioni inaspettate di linguaggi espressivi anche molto distanti tra di loro. Sono altresì luoghi intrisi di significati simbolici, di nostalgia per i localismi, palinsesto di interferenze culturali molteplici, non ascrivibili ai consueti codici architettonici ma caratterizzati da comuni denominatori quali la variabilità, l’originalità, la mancanza di un vero e proprio progetto, la povertà dei mezzi impiegati (grazie al totale riuso dei materiali), l’impiego di vegetazione semplice, in grado con poche cure di ben acclimatarsi al contesto, l’acqua (spesso laghetti tondeggianti), la presenza di collezioni di arte, siano esse sculture o semplici oggetti quotidiani. Ci si confronta con luoghi di grande originalità, altamente scenografici, in cui si manifesta come il rapporto uomo–natura abbia finito per ribaltarsi: non più l’uomo che cerca di proteggersi dagli imprevedibili eventi di una natura selvaggia e misteriosa ma che la racchiude per preservarla, per restituirle spazi e libertà (Pasquali, 2008). “È delle città come dei sogni: tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure” (Calvino, Le città invisibili).

Maria Laura Pappalardo
Presidente Festival Terra2050

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